Luxleaks, così è stato chiamato lo scandalo politico-finanziario che ha travolto l’Europa qualche settimana fa. Un’inchiesta portata avanti dal consorzio internazionale del giornalismo investigativo (ICIJ) che, grazie ad un team di 80 giornalisti dislocati in 26 paesi differenti, ha spulciato 28.000 pagine riservate di accordi tra il granducato del Lussemburgo e le più grandi aziende mondiali. Questi accordi sono completati da lettere, timbrate e firmate dal governo, che sancivano accordi di tassazioni agevolate, volte ad un solo obiettivo, il profitto. Infatti il granducato si è accordato, in segreto, per porre un tasso dello 0,25% ai profitti che le aziende depositavano nelle casse delle banche lussemburghesi. Tutto ciò è accaduto tra il 2002 ed il 2010, anni nei quali il neo presidente della commissione europea, Jean-Claude Juncker, è stato primo ministro del tale paese. Anche lui, quindi, è stato additato come uno degli artefici di tale “imbroglio”, anche per l’ostruzionismo mostrato ai commissari europei che gli chiedevano spiegazioni in merito. Nell’arco di questi otto anni più di 340 aziende, tra cui Ikea, Amazon, Apple e Fincantieri, hanno eluso il fisco dei propri paesi, portando via, in totale, circa 2.000 miliardi di euro dalle casse degli stati di appartenenza.
C’è da dire che, anche se gli accordi erano segreti, non erano illegali, al massimo potremmo definirli immorali, ma la moralità è spesso molto lontana dall’economia. In ogni caso è un semplice esempio di concorrenza nelle tassazioni, dovuta ad un vuoto normativo dell’Unione Europea.
Sappiamo benissimo che gli stati fanno ciò che più gli conviene, quindi Juncker, avendone la possibilità, decise, ovviamente non da solo, di rendere il Lussemburgo uno dei più invidiati paradisi fiscali al mondo.
In effetti quello che manca all’unione europea è un accordo comune sulle tassazioni, in grado di poter evitare queste “spiacevoli” situazioni di concorrenza, almeno all’interno dell’Unione stessa. Per l’Italia la situazione è ancora più imbarazzante; se prendiamo il caso di Finmeccanica, una delle tante aziende a compartecipazione statale, notiamo che lo stato è il suo primo azionista, quindi, portando i profitti all’estero, in poche parole, imbroglia se stesso.
Juncker si arrocca sulla sua posizione e, di certo, non farà un passo indietro, anche se si è detto disponibile a chiarire la sua posizione dinanzi ad una commissione d’inchiesta europea. Ci si auspica soltanto che difenderà gli interessi dell’Europa, di cui oggi è uno dei maggiori esponenti, tanto quanto ha difeso quelli del Lussemburgo, mentre ne era il primo ministro.
In ogni caso l’Europa ha ancora tanta strada da fare; chiaramente non è pronta a porsi come competitor internazionale unico, poiché la concorrenza tra i suoi stati è ancora troppo elevata e i vuoti normativi sono immensi. Tutto questo arreca danni all’unione stessa, prima che ad ogni singolo paese al suo interno, in un mondo sempre più globalizzato e competitivo dove ogni stato tenta di primeggiare con ogni mezzo.
Agli atti rimane un fiume di danaro perso per molti stati (non solo quelli europei) e l’amarezza di assistere ad un’Unione Europea che era nata come comunità economica e che si è trasformata in un’unità monetaria, incurante delle falle presenti nel sistema instaurato e che, forse, solo con questi bruschi risvegli potrà cambiare direzione.
Stefano Gattordo